“Can people replace institutions?” La domanda introduce il report sulle piattaforme di crowdfunding, o peer-to-peer finance, elaborato di recente da OpenBusiness e NESTA Connect nell’ambito di eventi dedicati all’argomento, significativamente denominati “WeBank”.
Se il fortunato neologismo crowdsourcing (crasi da crowd e outsourcing) viene generalmente usato in riferimento alle varie modalità di coinvolgimento degli utenti della rete nei processi di strutturazione dell’offerta di contenuti e servizi, esemplificative del progressivo slittamento da logiche produttive push a logiche pull, il crowdfunding ne costituisce una versione particolare. Nei casi di crowdfunding gli utenti sono chiamati a sostenere la realizzazione di particolari business o progetti attraverso dei microfinanziamenti. Ciò avviene tramite l’intermediazione di piattaforme 2.0 che implementano le possibilità di interazione e collaborazione fra lenders (investitori) e borrowers (richiedenti), da cui l’espressione “peer-to-peer finance”. Si tratta di un fenomeno in espansione in molti settori, incluso quello musicale, declinato peraltro in modi piuttosto differenti.
Il report segnala Zopa (di cui esiste anche la versione italiana) e Prosper come primi e principali esempi di p2p finance. Il loro ruolo consiste sia nell’abilitare e monitorare le transazioni fra lender e borrowers, sia nel fornire servizi che incentivino gli investimenti, adottando -ad esempio- meccanismi di analisi, valutazione e classificazione dei borrowers e delle loro proposte, così da fornire criteri di scelta agli investitori. Soprattutto nel caso di Prosper la costruzione della fiducia si basa anche su un alto grado d’interazione personale all’interno della community. Il business model di entrambe, alla stregua di eBay, è imperniato principalmente sulle commissioni a carico sia dei borrowers (quindi sui prestiti ottenuti) che degli investitori (1% annuale). Ciò che rimane poco chiaro, secondo il report, è quanto questi meccanismi rendano i prestiti meno cari e gli investimenti più remunerativi e/o sicuri.
Un altro caso spesso menzionato, nel report e non solo, è rappresentato da “MyFootballClub”. Il sito, creato nel 2007, intendeva aggregare appassionati interessati all’acquisto collettivo di una squadra di calcio, cosa effettivamente avvenuta l’anno successivo. L’iscrizione annuale (35£) consente di votare tutte le decisioni gestionali, sportive e di mercato. Ovviamente è caratterizzato da notevole interazione interna alla community. Per molti aspetti questa iniziativa appare come la radicalizzazione più concreta e realistica di un videogioco manageriale (e i manageriali di calcio sono fra i videogiochi più venduti, specie in Europa). Non a caso una parte degli introiti, oltre all’iscrizione e ai normali ricavi di una società di calcio (biglietti e sponsorizzazioni) provengono da EA Sports.
Quest’ultimo modello di profit sharing è piuttosto simile alla maggior parte delle piattaforme di P2P finance in ambito musicale, nuova tipologia di attori in un sistema in fase di ridefinizione. In questo primo (lungo) post dedicato al crowdfunding musicale vorrei illustrarne le caratteristiche, limitatamente ai casi più famosi, con l’obiettivo di discutere tali iniziative e modelli. Prossimamente dedicherò ancora uno o due post ai casi ‘italiani’ e a considerazioni personali su questi esperimenti.
Nata nel 2003, è probabilmente la prima piattaforma di crowdfunding musicale, almeno fra quelle che hanno ottenuto i maggiori riscontri. Soprattutto, costituisce un modello diverso da quello che si è affermato negli ultimi anni sulla scia della popolarità di Sell-a-band.
Su ArtistShare i musicisti propongono il proprio progetto, specificando il tipo di richieste economiche e le eventuali gratificazioni per i finanziatori. Infatti il finanziamento, al di là del contributo minimo corrispondente all’ordine/acquisto del cd, può variare notevolmente, dando adito a “premi” stabiliti dagli artisti e commisurati alla cifra donata: anteprime, video delle sessioni di lavoro, visite agli studi durante la registrazione, contenuti esclusivi, cd autografati, biglietti gratuiti per i concerti e pass per i backstage, fino a composizioni dedicate o all’accreditamento dei finanziatori come produttori esecutivi (come proposto dalla cantante jazz Allan Harris in cambio di un contributo di 15.000 dollari). In sostanza il microfinanziamento non consiste in un investimento economico, come nelle piattaforme illustrate più avanti. Riecheggiando implicitamente i suggerimenti di Kevin Kelly riguardo al “better than free”, il creatore di ArtistShare, Brian Camelio, ha spinto gli artisti a compensare il sostegno economico dei fan con valori quali un rapporto personalizzato e la possibilità di seguire il processo creativo. Così la jazzista Maria Schneider fornisce interviste e video esplicativi delle scelte degli arrangiamenti, mentre Jim Hall mette a disposizione dei finanziatori lezioni esclusive di chitarra. Alla piattaforma rimane una percentuale sui fondi raccolti (intorno al 15%) e una commissione vitalizia sulle vendite del prodotto finale. ArtistShare si è notevolmente affermata presso i jazzisti, a cominciare dall’album “Concert in the Garden” di Maria Schneider, prodotto nel 2005 grazie ai 90.000 dollari raccolti sulla piattaforma e successivamente vincitore di un Grammy
Lanciata nell’agosto 2006 la piattaforma consente ai musicisti che uploadano profili e musica originale di fare fund raising fra gli utenti, con l’obiettivo prefissato di raccogliere 50.000 dollari da utilizzare per la registrazione professionale, la promozione e la distribuzione di un album. Agli artisti che possono vantare precedenti discografici è consentito puntare al più ambizioso obiettivo di 100.000 dollari. Gli utenti possono finanziare il progetto investendo su “quote” fisse da 10 dollari ciascuna, il che significa che il finanziamento di 50.000 dollari richiede l’acquisizione di 5.000 quote. Non tutto il budget di $ 50.000 viene speso per la registrazione: il 10% rimane all’artista per le attività live e promozionali, il 20% è destinato alla stampa dei cd e agli incentivi per gli utenti che hanno finanziato il progetto, un ulteriore 10% viene trattenuto dalla piattaforma per il servizio di assistenza e amministrazione dell’iter di produzione. Gli artisti sono formalmente liberi di scegliersi studio e tecnici preferiti o di avvalersi delle strutture e delle figure suggerite da Sellaband. L’album viene poi dato in distribuzione ai suoi partner, fra cui Amazon, iTunes, eMusic.
Originariamente i ricavi generati per due anni dalle vendite e dalla pubblicità venivano equamente ripartiti fra artista, piattaforma e finanziatori, mentre gli introiti da licensing venivano suddivisi 60% all’artista, 30% a Sellaband, 5% a produttore e A&R. Sell-a-band ha da poco modificato il proprio modello di business variando la distribuzione dei proventi: i ricavi netti generati dalle vendite (tolti quindi i costi di stampa, magazzino, distribuzione ecc…) sono equamente suddivisi per cinque anni fra artista e finanziatori. Ovviamente, del 50% destinato ad essi, i singoli finanziatori ricevono una percentuale proporzionale all’investimento, ossia al numero di quote acquistate da ciascuno. La piattaforma trattiene invece tutti gli introiti da advertising e ottiene automaticamente una licenza di cinque anni sia per la distribuzione e vendita del prodotto, sia per lo sfruttamento economico dei diritti. Anche gli artisti possono impegnarsi nello sfruttamento economico dei diritti, fatto salvo l’impegno di suddividere gli eventuali introiti con i finanziatori, sempre in percentuale 50/50. Infine per i finanziatori sono previsti incentivi volti a premiare chi acquista più quote (es. sconti, versioni personalizzate e packaging particolari, percentuali sui proventi derivanti dallo sfruttamento dei diritti da parte di Sell-a-Band, presenza in studio di registrazione, ecc…).
Ad oggi Sell-a-band comunica di aver prodotto 31 artisti e 21 album, mentre nessun report viene pubblicato in merito ai guadagni degli investitori, lasciando adito a chi pensa si tratti soprattutto di uno stratagemma per minimizzare i costi di produzione, scaricandone una parte sugli utenti in cambio più che altro di un’esperienza partecipativa. In ogni caso il suo successo ha ispirato il modello di molte altre iniziative, comprese le due descritte qui di seguito e l’italiana di Sold Out Music, a cui accennerò in un prossimo post.
Una prima differenza rispetto a Sellaband riguarda il ruolo degli utenti, significativamente definiti scout. In base al profilo e alla musica gli artisti vengono assegnati a diverse scout rooms, in cui gli utenti recensiscono e votano la musica che viene sottoposta loro in forma anonima. Questi feedback determinano quali artisti accedono allo stadio di eleggibilità per i finanziamenti, definito showcase e riservato a chi ottiene i punteggi più alti e un minimo predefinito di recensioni. Il peso dei giudizi varia a seconda del rating degli scout, calcolato da un algoritmo che considera diversi fattori (vicinanza delle valutazioni alla media degli altri utenti che hanno giudicato gli stessi brani, ampiezza dello spettro di voti assegnati fra 0 e 10, ampiezza delle recensioni, frequenza delle recensioni). Peraltro le recensioni vengono retribuite, seppure in misura simbolica: dai 3 pence per gli scout a una stella ai 15 per gli scout a cinque stelle (le prime 5 sterline possono essere solo reinvestite sugli artisti, il resto è ritirabile tramite PayPal). Dunque la semplice registrazione alla piattaforma non è sufficiente per usufruire automaticamente della possibilità di fund raising: è necessario un consenso preliminare espresso attraverso le valutazioni degli utenti, che consente di superare la prima fase di selezione. Solo gli artisti con una storia e una fan base consolidata possono accedere all’opzione di “direct financing”, che permette saltare il filtro delle scout rooms. La piattaforma è aperta anche ad etichette interessate a fare fund raising presso il pubblico per specifici progetti.
Altre differenze riguardano l’obiettivo finanziario prefissato e la redistribuzione dei proventi. La cifra stabilita dalla piattaforma per la registrazione, pubblicazione e promozione dell’album (anche qui svolta autonomamente o avvalendosi di studi e figure suggerite) ammonta a 15.000 sterline. Gli utenti possono acquistare quote da 1£ ciascuna (definite “contratti”), pertanto ad ogni album che raggiunga il finanziamento corrispondono 15.000 contratti. I singoli contratti danno diritto a 10p ogni 1000 album digitali venduti (ossia una sterlina ogni 10.000) e 10p ogni 10.000 download di singole tracce, più ovviamente la copia gratuita dell’album e il proprio nome fra i crediti di copertina. Gli utenti/investitori incassano le proprie spettanze solo al termine dei due anni e nell’arco di questo periodo i contratti possono essere liberamente ceduti e acquistati attraverso la piattaforma, a prezzi fluttuanti a seconda dell’esposizione e dell’andamento del progetto. Il modello di business di Slicethepie prevede un fee del 10% sui fondi raggiunti tramite lo showcase, due anni di royalties sulle vendite (2,50£ per album e 25p sulle singole tracce, più 2£ e 20p sugli eventuali supporti fisici), introiti pubblicitari e una commissione sulle transazioni dei contratti scambiati fra gli utenti (2,5% sia dai venditori che dai compratori). Le royalties sulle vendite sono leggermente inferiori nei casi di “finanziamento diretto”. La distribuzione digitale viene obbligatoriamente affidata a Tunecore, mentre viene lasciata libertà agli artisti di decidere se fare o meno anche quella fisica ed eventualmente di scegliersi il distributore. Tolto il margine dei dettaglianti e i costi di distribuzione agli artisti rimangono circa 2.50£ per album venduto e 25p sui singoli. Gli artisti mantengono anche i diritti su composizioni e registrazioni.
La prima particolarità della francese My Major Company consiste nell’insistenza con cui rimarca la propria natura di etichetta, pur adottando il meccanismo del microfinanziamento per singoli progetti. La seconda è rappresentata dalla scrematura all’entrata effettuata dallo staff per garantire standard minimi di qualità dei progetti presentati. La terza è che gli artisti devono obbligatoriamente essere prodotti usando risorse e professionisti stabiliti da My Major Company (formalmente sempre per garantire gli investitori sulla qualità dell’output finale), laddove alle altre piattaforme basta il rispetto degli accordi sulla ripartizione dei fondi e dei ricavi. Quarta: l’obiettivo da raggiungere sono ben 100.000€, attraverso il finanziamento di 10.000 quote da 10€. Gli utenti sono inoltre vincolati a un tetto massimo di 100 quote su una stessa proposta, mentre non ci sono limiti riguardo al numero di artisti finanziabili. I 100.000 € vengono investiti nella registrazione dell’album, nella realizzazione dell’artwork e del videoclip del primo singolo, nella stampa dei supporti, nella promozione e nella distribuzione, sia fisica che digitale. La cifra sensibilmente più alta rispetto alle altre piattaforme viene giustificata con l’importanza attribuita non solo alla qualità della registrazione ma al marketing, alla promozione e alla distribuzione, seguendo la logica esplicitata secondo cui “a maggiori investimenti corrispondono maggiori possibilità di guadagno”. Per il servizio l’artista cede in esclusiva a My Major Company tutti diritti di sfruttamento economico della musica, del proprio nome e dell’immagine, per la durata (non precisata) del contratto; in cambio riceve il 20% su tutte le entrate al netto dei costi inerenti le operazioni di sfruttamento. Agli utenti/produttori viene invece garantito il 30% dei ricavi generati dalle vendite fisiche e digitali dell’album (più accessi scontati o gratuiti ai concerti organizzati da My Major Company). Infine l’etichetta punta molto a sollecitare l’aspetto di community e la partecipazione degli utenti, al di là del contributo finanziario: dotazione di strumenti 2.0 per collaborare alla promozione degli artisti, aree riservate per uno scambio costante con essi, e soprattutto la richiesta di pareri durante la fase di produzione (sull’artwork, sulla scelta della tracklist e del singolo, sul videoclip, ecc…).
Bellissimo, Francesco, molto utile. Aspetto il numero 2. Ma poi, queste cose, stanno funzionando?
Posted by: Alberto Cottica | 06/09/2009 at 10:50 PM
Interessantissimo!
Per quel che riguarda il caso francese trovo ironico il comparire della parola "major" nel nome: le prassi mi ricordano molto quelle della discografia di pari estrazione (detto da me...), con la - non trascurabile - differenza però che il discografico major tout court almeno di accolla tutte le spese secondo la vecchia regola del "rischio d'impresa"...
Posted by: Rossella | 07/02/2009 at 04:11 PM
Grazie Rossella, sono d'accordo. Tuttavia, se la logica del modello consiste nell'incentivare i finanziamenti puntando a generare degli utili per gli utenti/finanziatori, forse, paradossalmente, ha più senso porsi come una major, per competenze e ambizioni. Oppure si fa leva su motivazioni diverse dal guadagno, e allora va benissimo MyIndieCompany o MyMusicLabelCompany, anche se questo attaccamento al concetto di etichetta costituisce anch'esso un limite alla sperimentazione di logiche e modelli davvero innovativi.
Posted by: Francesco | 07/03/2009 at 02:52 PM
Un gruppo come i Public Enemy ha firmato un contratto con SellaBand: ricercano 250000$ in quote da 25$ per produrre il loro prossimo album. Ai finanziatori offrono una quota dei proventi e una copia numerata del disco.
Posted by: roberto federico | 10/06/2009 at 02:16 PM
Levoluzione del p2p dai contenuti musicali ai fondi per produrli prima parte .. Peachy :)
Posted by: francescodamato.typepad.com | 04/29/2011 at 01:22 AM