Nel 2008 il settore fonografico ha accusato un forte rallentamento nel tasso di crescita delle vendite di musica digitale, fino ad allora esponenziale: dal 147% del 2005 al 27%. Al contrario, il declino di vendite del fisico prosegue inarrestabile. Fra chi acquista musica, due persone su tre non si sono convertiti al downloading legale ma insistono con i cd, comprandone però sempre di meno; il terzo che invece acquista file privilegia soprattutto il formato singolo. Allarme rosso, dunque, e immediata corsa ai ripari. Quali? Un paio delle soluzioni su cui hanno spinto le etichette, sostanzialmente le major, richiamano strategie tradizionali del settore. Da un lato l’incentivazione all’acquisto di album, formato più remunerativo e protagonista della spettacolare crescita della fonografia fra anni sessanta e novanta, attraverso il lancio di nuove versioni interattive che consentono si fruire foto, testi delle canzoni, note di copertina, e altri contenuti collegati. L’inquietante ammissione di un executive citato in un articolo del Financial Times sottolinea come “E’ tutto finalizzato a ricreare lo splendore dell’album, quando ci si sedeva intorno con gli amici guardando la copertina mentre si ascoltava la musica”. Dall’altro lato, la differenziazione delle fasce di prezzo dei prodotti, su cui mi soffermerò in questo post.
Ad Aprile Apple ha inaugurato su iTunes l’annunciata differenziazione di prezzi in tre fasce - che richiamano la tradizionale distinzione in “budget-, mid- e top- price” - cedendo alle pressioni delle etichette in cambio di downloads definitivamente privi di drm: dalla consueta offerta a 99 centesimi si differenziano alcuni brani portati a 69 centesimi ed altri a 1 dollaro e 29 (quindi, rispettivamente, con una diminuzione e un aumento del 30%). La differenziazione dei prezzi è stata seguita anche da altri retailer, fra cui Amazon, Rhapsody e Wal-Mart, sebbene venga spesso riscontrata una disparità di prezzi sugli stessi prodotti. Vorrei fare il punto sulle molte cose che si sono dette in proposito, partendo da un’analisi piuttosto interessante svolta da Billboard nelle sei settimane successive all’introduzione dei prezzi variabili. Complessivamente, considerando cioè le tre fasce, il risultato è consistito in un lieve calo delle vendite compensato però da un aumento dei ricavi: esattamente l’obiettivo perseguito dalle etichette. Il perché è intuitivo ma vediamo meglio cosa è successo.
Sono stati spostati nella fascia alta hit e classici, ossia i prodotti per i quali è maggiore la domanda. Si sa che il prodotto musicale è tendenzialmente caratterizzato da bassa elasticità al prezzo, soprattutto per questo genere di brani, la cui domanda risente assai poco dell’aumento di prezzi. Così è stato, portando un margine decisamente più alto di guadagno su queste musiche. Al contrario, alcune di catalogo o meno popolari che sono state comunque spostate in questa fascia hanno sofferto un declino maggiore, portando quindi un aumento pressoché irrilevante di ricavi o addirittura, in alcuni casi, una perdita. Ciononostante il bilancio dell’insieme dei brani in vendita a 1,29$ è positivo: basta considerare –ad esempio- che le vendite dei brani nella “top 40” settimanale sono diminuiti solo dell’11% , mentre il loro prezzo è aumentato come detto del 30% (mentre se consideriamo i “top 200” il calo di vendite è anche minore: -8,5%).
Il deprezzamento a 66 centesimi ha invece riguardato i singoli che vendono meno, il cosiddetto “fondo di catalogo”, mossa che peraltro non è servita ad aumentarne la domanda, ad ulteriore conferma della scarsa elasticità in relazione al prezzo: non basta cioè diminuire il prezzo di ciò che piace meno per venderne di più.
Ecco quindi spiegato il risultato complessivo: i prezzi variabili hanno comportato un declino delle vendite, soprattutto su brani di catalogo che hanno maggiormente risentito dell’aumento di prezzo, compensato però dall’aumento della spesa e dai maggiori ricavi derivanti dalle vendite dei brani di maggior successo. Altro che “coda lunga”! La strategia, esplicitamente dichiarata da alcuni dirigenti, mirava a massimizzare i profitti dalla “testa corta”, sfruttando proprio la scarsa elasticità al prezzo di quei prodotti, come è stato fatto in passato in occasione di alcuni aumenti dei prezzi dei cd di artisti affermati, poco giustificabili da motivazioni diverse dalla stagnazione dei tassi di crescita. E’ quindi vero che il prezzo costituisce una leva poco utile in chiave di marketing in senso stretto, ma questa caratteristica offre comunque altre opportunità, motivo per cui i fonografici si sono sempre fortemente lamentati del non avere il controllo su questa variabile cruciale per le strategie commerciali dei “propri” prodotti. Quindi: sfruttare al massimo la “testa corta”, aumentare i prezzi dei prodotti per i quali c’è maggiore domanda anche a costo di vendere meno, per riuscire a “compensare”… un termine, questo, ricorrente in modo esasperato nei discorsi di (quasi) tutti gli operatori del settore. Compensare le perdite sul fisico agendo sulle strategie di vendita del digitale, quasi come se la transizione in atto riguardasse un semplice cambio di formato, non di sistema. Compensare le perdite sperando di riportare il sistema a un equilibrio, e a numeri, “pre-tempesta” (nonostante ancora oggi due terzi degli acquirenti di musica non abbiano sperimentato alcun modello di vendita di file musicali, due terzi per i quali le variazioni sui prezzi sono pertanto irrilevanti).
Per la verità questo obiettivo non era l’unico dichiarato dai produttori fonografici. In teoria i prezzi variabili dovrebbero consentire di elaborare nuovi pacchetti e tipologie di offerta, ad esempio attraverso il bundling fra contenuti: prezzi più alti per i brani abbinati a video o suonerie o a brani con un mercato fermo (immaginando magari combinazioni elaborate attraverso filtri collaborativi che monitorano gusti e pattern di consumo o filtri di nuova generazione basati su analisi morfologiche, in stile Pandora). Inoltre l’aumento dei brani di successo, laddove il prezzo degli album che li contengono rimanga invariato, dovrebbe costituire un incentivo in linea con l’altra strategia, ossia col cercare di ridare centralità a questo formato. In fondo l’album stesso nasce come bundling di prodotti musicali riuniti in uno stesso “pacchetto” prima di affermarsi come fine di un progetto creativo organico (e chissà quindi che le attuali forme di bundling di contenuti derivativi non possano svilupparsi nella stessa direzione, ossia nell’articolazione di nuove forme di creatività).
Infine un cenno alle ripercussioni su altri comparti, in particolare su quello editoriale (esaminate anche in un altro articolo di Billboard). Per gli editori non vale infatti l’equazione “meno vendite ma a prezzi più alti uguale maggiori ricavi”, in quanto la quota di royalty spettante per il diritto di riproduzione è fissa e non proporzionale al prezzo di vendita. Quindi, per gli editori, l’equazione diventa più semplicemente “meno vendite uguale meno introiti”. La compensazione della fonografia diminuisce i ricavi dell’editoria, tanto più che in questo caso il calo di vendite dei prodotti di fascia alta non è compensato da un aumento di quelli nella fascia bassa. Naturalmente i due comparti sono in larga parte sovrapposti, ma sebbene le corporation di cui sono parte le major fonografiche, che producono la maggior parte dei brani a 1,29$, includano divisioni editoriali, rimane il fatto che l’equilibrio a livello di corporation dipende dal market share delle rispettive divisioni: ad esempio la EMI a livello globale deteneva nel 2008 il 9,6% del mercato fonografico mentre la sua divisione editoriale aveva il 18,3% del mercato editoriale. In questi casi le conseguenze dei prezzi variabili implicano una perdita maggiore rispetto al guadagno. Un editore indipendente che abbia delle hits nel proprio catalogo è invece esposto alle strategie di prezzo delle etichette (ossia al probabile aumento di prezzo e relativa diminuzione delle vendite). Insomma, un ulteriore conseguenza di questa strategia sembrerebbe il restituire centralità, anche economica, al comparto fonografico.
Comments