Probabilmente Jim Griffin
avrà letto il fortunato “The Future of Music Business”, in cui Leonhard e Kusek
ipotizzavano la legalizzazione dell’accesso indiscriminato ai contenuti
musicali presenti rete in cambio del pagamento di una sorta di canone fisso (o
anche di una “bolletta a consumo”), equiparando la fruizione di musica a quella
di altre utenze e servizi. Da qui l’espressione, altrettanto fortunata, “music like water”.
Jim Griffin è un
consulente della Warner Music, nonché l’artefice di un progetto di cui si parla
da diversi mesi e che proprio in questi giorni dovrebbe entrare nella fase
operativa. L’idea di Choruss, questo il nome, consiste nel concordare con i
college e le università statunitensi il pagamento di un fee “per-user” in
cambio della possibilità per gli studenti di scaricare musica liberamente, e
senza il rischio di ritorsioni legali, dai sistemi di file-sharing a cui
accedono tramite le dotazioni dei campus. Sostanzialmente Choruss è una società
di collecting che rappresenta gli interessi delle major che hanno aderito al progetto
(tre su quattro, Universal esclusa). Da modelli di business incentrati sul
controllo e sul pagamento di contenuti digitali ad un modello basato su una
logica di servizio.
Non tutto è chiaro
riguardo al progetto e ai modi in cui verrà implementato, cosa che ha attirato
diverse critiche a Griffin. Il quale peraltro ha costantemente ribadito che
Choruss costituisce soprattutto un esperimento: le università collaboreranno
anche in ottica di ricerca, analizzando le relazioni fra strategie di pricing e d’incentivazione,
comportamenti di consumo e dinamiche di rete. Ogni università sperimenterà un
modello differente: dall’integrazione obbligatoria della tassa all’interno
delle rette, al pagamento volontario da parte degli studenti, alla sua inclusione
nei pacchetti opzionali per l’utilizzo di particolari servizi o attrezzature,
per i quali molti campus richiedono degli extra. Anche il tracciamento dei file
condivisi adotterà tecnologie e metodologie differenti. Sarà infatti compito di
college e università monitorare le attività file-sharing e inoltrare i report a
Choruss. Un test, dunque, per studiare le possibili implementazioni dei sistemi
di tassazione dei servizi che diffondono musica in rete, con l’obiettivo
dichiarato di estendere poi il meccanismo “testato” agli internet service providers, arrivando non più solo agli studenti ma
a tutti gli utenti internet.
Come detto l’idea non
sembrerebbe molto lontana da uno degli scenari prefigurati da Kusek e Leonhard,
per i quali peraltro il flat-fee
dovrebbe costituire solo un punto di partenza per altri modelli basati sostanzialmente
su una logica “premium” (l’acqua in bottiglia), se non fosse per un aspetto
cruciale. Sembrerebbe esserci una differenza sostanziale fra Choruss e le altre
società di collecting, in quanto l’attività della prima non prevede il rilascio
di una licenza collettiva per l’utilizzo dei contenuti. Il meccanismo legale su
cui si basa il piano di collecting non consisterebbe nella tradizionale “licenza”
ma in una procedura denominata covenant
not to sue, letteralmente “compromesso per non citare in giudizio”: in
cambio di un pagamento i membri dell’organizzazione rinunciano ad azioni legali
contro gli studenti per l’infrazione delle leggi sul copyright, nonché contro
le università consentono l’utilizzo delle proprie strutture e dotazioni per le
attività di file-sharing. Alle logiche manifestazioni di perplessità Griffin
ha risposto che la scelta fra licenze o accordi di questo tipo risulta comunque
indifferente ai fini degli obiettivi e degli effetti del programma, demandando
tale scelta ai legali della società e delle major che rappresenta. Ed è qui il problema, in quanto licenza e convenant not to sue saranno anche
uguali rispetto agli obiettivi dei produttori fonografici ma implicano notevoli
differenze sia a livello di principio che nelle concrete conseguenze per gli
altri players del sistema: editori,
musicisti, fruitori. Questo punto è stato messo in luce da Bennett Lincoff e da altri, dei
quali riassumo brevemente le considerazioni.
Primo: mentre la licenza
renderebbe a tutti gli effetti legale il file-sharing tramite software P2P, il
compromesso “per non intentare causa” non produce evidentemente lo stesso effetto.
L’operazione Choruss non va affatto in direzione della legittimazione e legalizzazione
di una pratica ampiamente consolidata ed anzi può benissimo procedere
parallelamente ad azioni legali contro gli stessi servizi che gli studenti
pagano per utilizzare. Tutto ciò che attualmente viene considerato illegale
rimane tale, semplicemente gli aventi diritto chiedono dei soldi per “chiudere
un occhio” nei confronti di due soggetti coinvolti nell’illecito, università e
studenti.
Secondo: ok, i
produttori fonografici prendono i soldi e chiudono un occhio, ma gli altri
aventi diritto? Mentre il meccanismo delle licenze implica che i produttori
fonografici abbiano a loro volta soddisfatto gli oneri relativi all’utilizzo
delle composizioni, sollevando così i licenziatari dal dover pagare due volte
(una volta gli editori per i diritti sulla composizione, un’altra i produttori
per i diritti sulla registrazione), nel caso del “compromesso” non avviene
nulla di tutto ciò. Non licenziando nulla i produttori non sono tenuti a
versare una quota dei soldi ricevuti agli editori per i diritti di sfruttamento
economico delle composizioni. Quindi, teoricamente, le somme versate a Choruss
non esonerano istituti e studenti dal rischio di cause intentate dalle società
che tutelano i diritti di editori e compositori. Per lo stesso motivo anche
interpreti ed esecutori non avrebbero alcun diritto a rivendicare parte dei
proventi raccolti da Choruss. Infine ci sono tutte le etichette non associate a
Choruss: teoricamente ognuna di esse potrebbe comunque contestare a gli
istituti e agli studenti, che pure hanno pagato, il downloading degli specifici
contenuti di cui detengono i diritti.
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