Come spesso accade con neologismi che acquistano grande popolarità nel denominare fenomeni in forte espansione, ma anche in costante evoluzione, pure crowdsourcing viene spesso utilizzato con accezioni alquanto diverse. Jeff Howe, che lo ha coniato in un articolo di Wired del 2006, nello stesso anno proponeva sul suo blog una definizione utile a distinguere il “crowdsourcing” dalla “peer production”: il primo rappresenta l’atto di una compagnia o istituzione che attraverso una chiamata aperta trasferisce in outsourcing a una rete di persone una funzione potenzialmente eseguibile da personale impiegato o collaboratori contrattualizzati. Nella sua pubblicazione successiva, Howe ha anche suggerito una tipologia di declinazioni del crowdsourcing, differenti a seconda di ciò che viene richiesto (dalle aziende/istituzioni) e fornito (dai web-users). La declinazione più diffusa in ambito musicale è probabilmente il crowdfunding, di cui ho parlato in altri post. Esistono tuttavia, e stanno aumentando negli ultimi tempi, piattaforme che sperimentano modelli diversi, analoghi al crowdsourcing di saperi e contenuti che finora avevano caratterizzato maggiormente altri settori (es. moda e design). Vorrei descriverne tre, a titolo esemplificativo, proponendo alcuni spunti e considerazioni.
Il progetto iniziale consisteva in un servizio a produttori e musicisti in cerca di specifici contributi creativi per completare i propri progetti musicali (es. di una voce, di una bassline o di un riff, di un lavoro di postproduzione o di packaging). Tuttavia quasi da subito questa startup danese si è proposta come tramite fra le imprese interessate a trovare musica adatta ai loro progetti e musicisti in grado di soddisfare tale domanda. Le imprese utilizzano il sito per illustrare e pubblicare dei progetti, all’interno di categorie predefinite, in cui specificano il tipo di musica di cui hanno bisogno ed il relativo compenso per chi fornirà quella più adatta, autorizzandone ovviamente l’uso previsto. Se il cliente è interessato ad ottenere una licenza in esclusiva deve specificarlo prima, stabilendo un compenso ovviamente più alto, altrimenti il cliente può optare per l’ottenimento di un brano in licenza non esclusiva, purché si tratti di brani originali. I musicisti concorrono alla gara caricando dei clip audio che il cliente valuta. Una volta attivato il progetto, i clienti possono discuterne con i musicisti interessati, scambiando feedback che favoriscano l’allineamento fra input dei primi e output dei secondi. Il musicista di cui viene selezionato riceve il premio in denaro attraverso PayPal. La piattaforma richiede alle imprese il pagamento di un fee di 30 dollari per il servizio, ossia per ospitare il progetto, tuttavia qualora non fosse soddisfatto da nessuna delle proposte il fee viene interamente restituito. La piattaforma, lanciata da poco, soffre al momento alcune piccole rigidità strutturali: ad esempio alcuni clienti hanno lamentato che chi ha interesse a ricevere più brani non ha la possibilità di stabilire più premi all’interno dello stesso progetto ma deve aprirne diversi.
Come Minimum Noise, anche Musikpitch si definisce come piattaforma di crowdsourcing, ispirata esplicitamente a modelli di notevole successo nell’ambito del design, come i famosi (e assai discussi) 99design e Crowdspring. Anche in questo caso i clienti versano una somma alla piattaforma (39 dollari) per postare un brief in cui viene illustrato sia il tipo di musica ricercata - per un determinato film, videogame, spot pubblicitario, show televisivo, o altro - sia il relativo compenso. Il post innesca dunque un contest e i musicisti hanno a disposizione quattordici giorni per proporre le proprie composizioni. Nessun altro cliente può ascoltare le proposte per uno specifico contest, solo l’azienda che lo ha indetto. I clienti che mettono in palio più di 5.000$ mantengono i diritti esclusivi sullo sfruttamento del brano, altrimenti ottengono una licenza non esclusiva che consente a Musikpitch di licenziare lo stesso brano ad altri utilizzatori intermedi. Il modello di business della piattaforma contempla anche un 10% sulla posta messa in palio dalle aziende. L’utilizzo del servizio è invece completamente gratuito per i musicisti
Taxi
Taxi rappresenta un caso assai diverso, per storia e per approccio. Tuttavia si presta ad un confronto assai utile, se non altro perché in rete viene comunque indicato, a volte, come esempio di crowdsourcing musicale. Questa compagnia, nata nel 1992 e con sede a Los Angeles, si definisce come la più grande agenzia indipendente di A&R, specializzata nel ruolo di intermediazione fra creativi e professionisti del music business, quali discografici, editori, music supervisor. Oggi Taxi funziona in modo apparentemente analogo alle piattaforme per il crowdsourcing di creazioni musicali: da un lato le diverse aziende postano le richieste per il tipo di musica che desiderano, specificando i termini dell’accordo e il compenso per gli utilizzi previsti; dall’altro i musicisti propongono i propri brani per i “bandi” che trovano più interessanti e più adatti a loro (il tempo a disposizione varia da un mese o un mese e mezzo di tempo). Tuttavia, a differenza delle altre due, Taxi si rappresenta essenzialmente come servizio agli artisti, in grado di aiutarli a “risolvere il problema di trovare interlocutori interessati alla propria musica”. Poiché la compagnia vanta uno staff di 200 A&R con vasta esperienza nel music business, l’asset su cui fa leva il servizio consiste nel network di operatori del settore, che assicura un flusso continuo di richieste: l’elenco viene aggiornato ogni due settimane e la piattaforma prevede di pubblicarne circa 1.200 ogni anno, per qualsiasi genere di musica. Inoltre i musicisti possono contare sui feedback degli A&R per migliorarsi. Per questi motivi, a differenza di Minimum Noise e Musikpitch, Taxi richiede agli utenti-musicisti un’iscrizione annuale di 300 dollari (200 per gli anni successivi al primo), comprensiva anche di ingresso per due alla convention di tre giorni con professionisti del settore, organizzata dalla compagnia e riservata agli iscritti. La convention è anche occasione di incontro fra i membri della community, alimentata sia attraverso un forum in cui scambiare idee, suggerimenti, recensioni, sia attraverso un’apposita sezione in cui i musicisti possono a loro volta postare annunci per individuare specifici collaboratori o contributi (parolieri, studi di registrazione, cantanti, ecc…). Ai musicisti viene richiesto anche un fee di 5 dollari per ogni canzone inviata per una determinata richiesta, giustificato da Taxi come disincentivo allo “spamming musicale”, per evitare cioè tutti che propongano tutta la propria musica ad ogni bando. Non è solo un problema di sovraccarico del sistema: gli A&R di Taxi filtrano le proposte ascoltando e valutando ogni brano, per poi inoltrare alle aziende-clienti solo quelli ritenuti più appropriati e meritevoli (senza limiti di quantità). Non si tratta quindi soltanto di un tool che aggrega domanda e offerta ma di un player attivo e importante nel mediare il loro incontro. Peraltro Taxi si cautela contro la possibilità di essere scavalcata nascondendo inizialmente la provenienza delle richieste; solo quando un brano viene giudicato idoneo Taxi comunica ai musicisti l’inoltro e il nome dell’azienda, la quale poi sceglie una fra le proposte ricevute e contatta direttamente l’autore per chiudere l’accordo. Il modello di business non prevede ulteriori percentuali o commissioni sugli accordi fra l’azienda e il musicista.
Alcune considerazioni.
Primo: il crowdsourcing di contenuti musicali promuove la “gara” come meccanismo per la fornitura di creatività musicale alle imprese che la richiedono, analogo a quello ampiamente istituzionalizzato nel settore pubblicità (ma non per questo meno criticato: basti pensare agli attacchi di cui sono stati oggetto gli “spec design sites” che lo hanno esteso al mondo del design e al movimento no!spec).
Secondo: la ricerca e la selezione di creatività musicale, nei primi casi operata direttamente dal cliente e nel terzo anche dalla piattaforma intermedia, è solo orientata al mercato - piuttosto che al prodotto – ma a un mercato appunto da vari tipi di imprese e utenti intermedi, in linea con il progressivo slittamento dal B2C al B2B (a tal proposito mi sembra significativo che in ambito musicale si sia sviluppato molto prima il crowdfunding in stile Sellaband, volto a reperire i fondi per progetti da lanciare sul mercato dei fruitori). In effetti quello che fanno simili piattaforme non è molto diverso dal lavoro di aggregatori (o etichette) che si specializzano nel licensing.
Terzo: alcune ricerche sul crowdsourcing in altri settori hanno mostrato come le motivazioni di chi partecipa rientrino sostanzialmente in quattro categorie: opportunità di remunerazione economica, occasione per migliorare le proprie abilità tramite il confronto con altri esperti e/o appassionati, opportunità di farsi conoscere e quindi di alimentare la propria carriera, divertimento e piaceri annessi alla partecipazione ad una community. I tipi descritti di crowdsourcing musicale cosa offrono in termini di opportunità di guadagno, di carriera, di miglioramento delle proprie capacità, di divertimento e socializzazione con altri che condividono stessi interessi e passioni?
Per cominciare è interessante notare come l’opportunità di carriera venga esplicitamente enfatizzata solo da Taxi, che come detto si definisce una compagnia di A&R i cui interlocutori privilegiati sono sostanzialmente gli operatori “tradizionali” del settore (sebbene il licensing per film e serie televisive costituisca uno degli sbocchi più frequenti). La retorica su cui fa leva per attrarre utenti-musicisti è quella dell’accesso all’industria musicale, anzi proprio dell’opportunità di carriera in tale ambito: “Taxi isn’t for everybody. We created this company to give insider information and access to the people who are most serious about having a career in the music business. If you want to keep music as just a hobby, then TAXI may be more than you need”. Probabilmente non è corretto definire Taxi una piattaforma di crowdsourcing, appellativo che le viene a volte attribuito in rete, tuttavia vale la pena evidenziare quanto siamo lontani da una celebrazione del dilettantismo “2.0” di cui il crowdsourcing viene spesso presentato come promotore e conseguenza. Comunque: a che tipo di carriera può aspirare un musicista che partecipa al crowdsourcing? A contratti “tradizionali” presso strutture “tradizionali” come le etichette di cui Taxi vanta i rapporti, messe in crisi dalle radicali trasformazioni degli ultimi dieci anni? Riconoscimenti e un curriculum puntellato di gare vinte quali porte consentono di aprire?
Difficile dire qualcosa sulle opportunità di guadagno, sarebbe necessaria un’analisi più approfondita e la comparazione fra diverse case histories. Piuttosto credo vada evidenziato come in genere i premi offerti per i brani e per l’autorizzazione al loro utilizzo siano stabiliti in anticipo a prescindere da valutazioni sul beneficio atteso in base al tipo utilizzo.
Non c’è dubbio che simili piattaforme rappresentino strumenti utili a migliorarsi attraverso il confronto, fra pari (nel caso delle prime due) o con esperti (nel caso di Taxi), a patto che da un lato riescano ad aggregare una community diversificata e motivata, con un forte commitment verso la filosofia della piattaforma e il tipo di progetti proposti; dall’altro che venga prevenuto il rischio che la formula del contest inibisca l’aiuto reciproco. Anche qui mi sembra ci sia ancora da lavorare: l’impressione –riferita non solo a questi casi- è che spesso l’impegno maggiore vada nella progettazione del servizio in termini di originalità, qualità e funzionalità, meno nella proposizione di un’idea forte, in grado di muovere e alimentare una community. Siamo comunque in piena fase di sperimentazione, sarà molto interessante seguire l’evoluzione di questi modelli.
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