Dato che il vantaggio su cui fanno leva i servizi di cloud music è la possibilità di accesso alla propria collezione musicale in ogni momento da ogni luogo, non sorprende che negli ultimi sei mesi vi sia stata una esplosione di servizi per mobile phone. Servizi di due tipi: streaming di musica scelta dalla library del servizio, accessibile in genere tramite abbonamento, oppure streaming della propria musica precedentemente uploadata sui server della compagnia (online music lockers service, come ad esempio MP3Tunes o mSpot); in questi casi si paga generalmente per gli account premium che forniscono maggiore spazio di archiviazione.
Sia nuove start-up che grandi compagnie puntano quindi sul boom di questo mercato e sull’appeal dei vantaggi offerti: comodità (non dover trasferire la musica su diversi dispositivi di riproduzione), economicità (con circa 10 dollari al mese si può accedere alla fruizione in streaming di tutta la musica disponibile invece di scaricare 10 brani da iTunes). E’ questa la scommessa su cui stanno investendo MOG, Thumbplay, Rhapsody, Microsoft, Google, Hewlett Packard, Rdio (creata dai fondatori di Kazaa e Skype), la stessa Apple e Spotify. (Se poi parliamo in senso più ampio di piattaforme per ascoltare musica in streaming pagando un abbonamento possiamo considerare anche le radio con programmazione personalizzabile, alcune delle quali cominciano ad essere accessibili da cellulare, come Pandora e Slacker).
Pochi giorni fa Billboard ha però pubblicato un articolo non particolarmente incoraggiante. Il mercato della musica in abbonamento non cresce, anzi: il numero di iscritti a Rhapsody è quasi dimezzato nell’ultimo anno (mentre Pandora guadagna molto più dalla pubblicità che dagli abbonamenti). L'articolo riporta anche come non tutti nel settore manifestino ottimismo.
Ci sono diversi limiti da superare. Il primo riguarda una vecchia obiezione: i servizi di cloud music dovrebbero non solo consentire di costruire (e mostrare) la propria collezione di musica ma – soprattutto - di non perderla nel momento in cui si interrompe l’abbonamento a un determinato servizio. Al momento non sembra che l’utilizzo di file in luogo di supporti fisici stia generando nuove pratiche che ereditino significati e funzioni del collezionismo, né che stia ridimensionando la rilevanza di quest’ultimo. La possibilità di costruire e stabilizzare una propria collezione di musica ha contribuito a sorreggere il mercato dei supporti fisici (non solo fonografici). Le playlist condivisibili attraverso vari tipi di piattaforme stanno in parte assolvendo alcune delle funzioni comunicative associate alla collezione (su questo rimando all’articolo nel nuovo numero della rivista In-Formazione, ed. Falzea); tuttavia i piaceri e i significati ben raccontati da Nick Hornby, la possibilità di appropriarsi – letteralmente – di un repertorio rappresentativo di gusti, esperienze e percorsi, possibilità che contribuisce a dare senso e valore al lavoro continuo di ricerca, ascolto e investimento nella musica, non sembrano soddisfatti dalle nuove modalità di offerta che affiancano quelle tradizionali. Il che non costituisce un problema finché si tratta, appunto, di affiancare vecchi e nuovi modelli, ma dalle parole di molti operatori sembrerebbe che buona parte del settore auspichi – e si aspetti – che questi servizi sostituiscano progressivamente il downloading, così da risolvere una volta per tutte il problema delle copie non autorizzate. Qui sorgono anche questioni tecniche: come dimostrano i numerosi client nati per “scaricare” i video da You Tube, creare applicazioni che consentano di trasformare lo streaming in downloading non è impresa impossibile. Inoltre alcuni analisti prevedono che l’accesso a cataloghi pressoché sterminati salvati direttamente sui propri dispositivi di riproduzione sarà reso possibile dal costante aumento della loro capacità di archiviazione, mentre l’istituzionalizzazione planetaria dello streaming come unico meccanismo di accesso alla fruizione musicale da parte di ogni singolo individuo potrebbe creare problemi per un uso efficiente della banda wireless (per queste osservazioni rimando a un post di Cory Doctorow).
Potrebbe allora avere più senso pensare i servizi di streaming non come nuovo modello di business “strutturante” (e rigenerante) il sistema ma come parte di un nuovo ecosistema che integri in modo strategico diversi tipologie di offerta e modelli di business.
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