Stimolante il convegno di sabato scorso sul
crowdfunding , quanto basta per invogliare a finire un mezzo post in
sospeso da un po’ di giorni. Anzi, ad ampliarlo, tanto da giustificare il “prima
parte” e rimandare la seconda (e forse anche terza) ad altro post.
Anzitutto, il successo dell’incontro ha ribadito la recente esplosione di interesse, anche qui in Italia, verso il fenomeno. Mentre pare che il solo Kickstarter, quest’anno, sia destinato a raccogliere più finanziamenti dell’agenzia federale statunitense incaricata di supportare le arti (dato interessante ma relativamente significativo, visto che non tutti i progetti su KS provengono da creativi americani e non tutti riguardano produzioni culturali) e che circa il 68% dei progetti musicali raggiungono l’obiettivo, in Italia nascono nuove piattaforme, fra cui Do It Myself e Music Raiser specificamente dedicate a progetti musicali, e anche musicisti noti lanciano campagne. Non si tratta di novità assolute: ricordo che in Italia ci aveva provato già nel 2008 Sold Out Music, purtroppo con scarso successo. Probabilmente oggi i tempi sono più maturi (ma bisogna vedere per quale modello), intanto buona fortuna a entrambe.
Oggi vorrei però
soffermarmi su un punto al centro di tanti discorsi sul crowdfunding, in rete e
nei convegni, soprattutto quando è riferito a progetti culturali e musicali. Una
ambiguità, implicata nel nome stesso: crowdfunding – ci viene continuamente
detto - non significa rivolgersi alla “folla” della rete per ottenere dei
fondi, bensì mobilitare una “community” (che quindi deve preesistere alla
campagna). E se non si parla di community si parla di friends,
friends&family, fan-base, ecc…. Insomma, no community - o altre forme di
capitale sociale - no crowdfunding. Tuttavia la rete e i convegni (non solo/tanto
quello di sabato ma anche altri incontri ai quali ho partecipato) sono prodighi
di suggerimenti su come impostare e gestire le campagne, meno sul lavoro
necessario per creare capitale sociale, per comporre elementi di crowd in
community, per generare fandom. Forse perché sembra ovvio e banale, o forse
perché l’argomento rientra nell’area del “community management” anziché del
“crowdfunding”; fatto sta che il problema rimane e la sensazione è quella di
discorsi un po’ monchi, che basano molti dei loro argomenti – e a volte della
loro retorica - su un implicito tutt’altro che scontato. E’ anzi un problema molto
ampio e sfaccettato, che approfondirò nel secondo dei saggi in uscita, pertanto
mi limiterò a toccarne alcuni aspetti in diversi post. Comincio da un po’ di considerazioni
su uno degli elementi ritenuti nevralgici nella costruzione del rapporto fra
richiedenti e finanziatori: i premi o
incentivi.
Una tendenza che ho
visto crescere negli ultimi tre anni, monitorando discorsi in rete e campagne,
consiste nella sempre maggiore attenzione al planning della campagna: tempistiche,
budgeting , e soprattutto elaborazione dei rewards che i creativi “devono” promettere in cambio dei
finanziamenti. Analisi sempre più sofisticate sulla sensibilità dei
finanziatori a vari tipi di premio, una ricerca esasperata dell’idea e del
gadget più originale, veri e propri piani marketing che elaborano
l’associazione fra gli incentivi più appropriati per diversi target e/o di
valore proporzionale alle diverse cifre che i finanziatori possono offrire (ossia,
a diverse fasce di “prezzo”).
Il crowdfunding così concepito appare
sostanzialmente una transazione di mercato, caratterizzata da una
diversificazione dell’offerta secondo l’ormai ben nota logica del “better than
free” di Kevin Kelly. Tanto sono importanti, i premi, che
definiscono una delle categorie della tipologia ormai istituzionalizzata di
crowdfunding, appunto il modello “reward based”.
Ebbene, nelle mie ricerche, tutt’altro che definitive o rappresentative del fenomeno nella sua ampiezza e varietà ma che comunque forniscono delle indicazioni fondate su dati, mai mi è capitato di trovare un solo finanziatore motivato da un qualsiasi premio o incentivo prospettato. D’altra parte si sente spesso ripetere che la domanda di musica è caratterizzata da poca elasticità rispetto al prezzo (vero in misura diversa a seconda di altri fattori, ma non entro ora nel merito): se la musica di Pinco non mi interessa non comprerò il biglietto per il suo concerto o il suo album solo perché avrò in regalo un gadget col mio nome o che avrò solo io (personalizzazione ed esclusività), cose che invece sicuramente faranno piacere ai suoi fan, i quali probabilmente al concerto ci andrebbero comunque.
In una visione del crowdfunding, che emerge non solo in molti discorsi ma in molte delle campagne che capita di vedere, i rewards diventano invece medium e messaggio, ciò che viene offerto e in cambio dei quali si chiedono dei soldi. Ma per la maggior parte dei finanziatori il reward è una gratificazione aggiuntiva per il proprio contributo, il “grazie” per l’aiuto ricevuto e motivato da qualcosa di più e di diverso che lo precede, che sicuramente aiuta a rinsaldare un legame esistente e a mantenere una disposizione supportiva ma che non corrisponde a ciò che motiva il contributo o accende l’interesse (soprattutto in un contesto in cui tutti danno dei premi e in cui questi, per lo stesso motivo, raramente sono poi così originali).
Indubbiamente sapere che un creativo si impegnerà a fare qualcosa per noi in caso di finanziamento, soprattutto se si tratta di qualcosa che ha richiesto attenzione nell’ideazione e cura nella realizzazione, può alimentare stima e apprezzamento verso di esso, cosa però diversa dall’interesse e dal trasporto verso ciò che fa. Quell’apprezzamento può costituire una componente rilevante nella disposizione ad aiutare il creativo (più della fiducia nella reciprocità di cui si fa garante la piattaforma, come dimostra il funzionamento del crowdfunding su piattaforme che non intermediano il rapporto fra richiedente e finanziatore, PdB docet) ma non definisce la relazione con il fan, prevalente - o alla quale si fa più spesso riferimento - nel crowdfunding per progetti musicali, non a caso detto anche fan funding. Il fandom non è solamente fiducia nel fatto che si sostiene un creativo otterrà in cambio un riconoscimento e stima per un creativo riconoscente verso chi lo segue. E’ qualcosa di più raro, che tendenzialmente definisce un numero più circoscritto di relazioni; non a caso chi fa o analizza il crowdfunding in ambito musicale ricorda spesso, da un lato, che “la maggior parte dei fan non dona, nonostante gli sforzi” e, dall’altro, che anche chi raccoglie somme rilevanti ci riesce perlopiù grazie a sostanziose donazioni di piccole percentuali dei propri fan/contatti. (e sicuramente la varietà di utilizzi e di significati dei termini “contatto”, “community”, “fan”, “veri fan”, “fan-base”, contribuisce alla confusione dei discorsi su capitale sociale e pratiche partecipative mediate dal web).
Il reward non è ciò che crea fandom, e in genere non basta a trasformare un mio contatto o un legame latente (latent tie) in supporter. Il fan è anzitutto qualcuno per cui ciò che un creativo fa è importante e pregnante, ha rilevanza per il senso del sé e del proprio rapporto con il mondo, è significativo ed emozionante. Il fan è appassionato e coinvolto. Cosa facciamo, in genere, per provare a coinvolgere qualcuno in ciò che ci appassiona, a condividere qualcosa che per noi è importante, magari che ci riguarda in quanto performer? Promettere dei premi può attirare l’attenzione (sempre meno, quanto più persone lo fanno) e alimentare la disposizione per stare ad ascoltare, dopodiché bisogna parlare, o meglio raccontare in modo appassionante e coinvolgente, nonché appropriato rispetto a chi ci ascolta. Ecco, forse prima e più dell’elenco di premi serve il racconto, più del marketing lo storytelling, più del musicista-manager il musicista-narratore. Non che questo aspetto non compaia quando si parla di crowdfunding (Chiara Spinelli di Eppela lo ha menzionato durante il convegno), tuttavia mi sembra venga sempre dopo e che abbia un ruolo relativamente secondario. Secondo me, invece, è assolutamente centrale. Comunicazione, quindi, non nel senso della trovata relativamente “non convenzionale” per attirare l’attenzione, ma della costruzione del progetto, della sua ricchezza di senso potenziale per chi concede un po’ di attenzione, perché l’attenzione possa trasformarsi in interesse.
Non intendo quindi criticare il sistema dei premi ma l’eccessiva attenzione su di essi, la centralità che viene attribuita loro nell’emergente canone del “buon crowdfunding”. In alcune campagne, non poche, mi è capitato di leggere lunghissimi e divertiti elenchi dei vari premi per varie fasce di finanziamento, e descrizioni asciutte e sintetiche del progetto, come se si chiedesse alle persone di appassionarsi ai primi più che al secondo, di acquistare i primi anziché sostenere il secondo. Non solo: pochi giorni fa ho letto un commento ad un post sul crowdfunding, vale davvero la pena citarlo letteralmente: “if you want to bring in new people, you’ll probably have to create a campaign that has rewards so cool that lots of people want them even if they have no interest in you or your project”…
Insomma, lo
storytelling gioca un ruolo cruciale nel costruire capitale sociale e
community. Ovviamente lo storytelling, come del resto il marketing, implica
delle competenze. E richiede tempo, anche perché forma e contenuti del racconto
potrebbero variare a seconda delle persone con cui parliamo, enfatizzando aspetti
e individuando collegamenti che pensiamo possano accendere l’interesse di chi ascolta. E qui emerge
un altro problema, al quale ho solo accennato nel poco tempo a disposizione al
convegno e sul quale tornerò prossimamente.
P.S. grazie a Daniela, Dan e a Twintangibles per l'invito