Finalmente, a due settimane di distanza, trovo un momento per buttare giù alcune considerazioni stimolate dalla seconda edizione di Crowdfuture.
Anche quest’anno di contributi interessanti e meritevoli di approfondimento ce ne sarebbero diversi, tuttavia lo spunto di partenza per questo post proviene dall’intervento di Tim Wright sul DIY Crowdfunding, in quanto particolarmente pertinente rispetto a temi spesso toccati nel blog. Sebbene la relazione di Tim abbracciasse un contesto diverso e più ampio, le mie considerazioni riguardano più specificamente il crowdfunding per progetti e produzioni musicali e culturali.
Paradossalmente, ma fino a un certo punto, lo sdoganamento del crowdfunding e la sua conoscenza da un numero sempre maggiore di utenti rende meno rilevante ed utile l’utilizzo dei servizi di intermediazione, almeno per alcune categorie di soggetti. A valle dell’intervento, in cui Tim ha illustrato con numeri ed esempi il progressivo aumento di campagne svolte su propri siti anziché su piattaforme dedicate, lo scenario prefigurato sembra ridursi a due modelli: siti individuali e servizi di intermediazione generalisti (nei quali includo non solo i vari Kickstarter ma anche quelli dedicati a un singolo settore, in quanto “musica”, “cinema” o “moda” sono a loro volta universi infinitamente ampi e complessi).
Bene. Anzi male, secondo me. Perché in questo scenario si perde quella che a mio avviso costituirebbe la dimensione ideale e di maggiore efficacia del crowdfunding, ossia quella comunitaria. Del resto non si ripete sempre che non c’è crowdfunding senza community? Ebbene, tolte una manciata di eccezioni, il 90% dei servizi di oggi non coltivano e aggregano vere community, così come non costituiscono dei brand nella pienezza e ricchezza di senso che oggigiorno viene ascritta al termine. E le reti di amicizie e contatti personali, quelle che a loro volta costituiscono il 90% dei finanziatori del 90% delle campagne per progetti culturali, proposti su un servizio generalista o su un proprio sito, non sono community.
Quello che manca è quindi la dimensione delle piattaforme specialistiche, di nicchia (relativamente), tagliate – ad esempio - su un genere o su un approccio, su una funzione o su un’estetica. Una dimensione in grado, potenzialmente, di coagulare una community di interessati e appassionati. I vantaggi sono almeno tre:
- produzione e fluidità del capitale sociale comunitario vs. mobilitazione e rigidità delle reti sociali personali:
nella misura in cui la maggior parte dei finanziatori di una campagna sono i contatti personali mobilitati dal soggetto richiedente, questi tendono a entrare nella piattaforma per donare solo su quella campagna, o meglio a quel soggetto, spesso senza neanche interessarsi più di tanto alle altre campagne. Gran parte dei servizi di crowdfunding non sono community ma aggregatori di reti personali compartimentate. Una community di utenti che condividono uno specifico ambito di interesse e di passione consente la formazione del capitale sociale comunitario che favorisce fluidità della partecipazione e trasversalità delle donazioni – o quantomeno dei suggerimenti, del supporto promozionale, di altri tipi di input utili al progetto - da parte di singoli utenti .
- efficacia delle modalità di comunicazione della campagna al di fuori delle reti personali:
sappiamo quanto lo storytelling sia importante nell’engagement degli utenti-finanzatori, ma la sua efficacia dipende anche dalla conoscenza del pubblico a cui ci si rivolge e dalla condivisione di linguaggi e competenze.
- efficacia del sistema reputazionale:
quanto più il crowdfunding suscita interesse e acquista visibilità, tanto più i siti si affollano di richieste di finanziamento e tendono ad acquistare rilevanza i vari sistemi reputazionali che fungono da segnaletiche, dispositivi di orientamento e riduzione di complessità. La loro efficacia è potenzialmente favorita dalla dimensione comunitaria, con il correlato arricchimento di input pertinenti trasversali alle diverse campagne.
Eventuali perplessità sul modello di business per simili servizi non sono più giustificate di quelle sui modelli di business dei servizi generalisti (anzi), soprattutto se non si considera una visione ristretta e sempliicata della “coda lunga” come unico principio valido. Esistono peraltro siti di successo che si collocano su questo livello
Un’altra deriva, non in contrasto con questa opzione ma per molti versi complementare, consiste dall’integrazione del crowdfunding nel vissuto quotidiano, all’interno di contesti e pratiche in cui si renda utile o necessario. Un esempio interessante è stato segnalato da Angelo Rindone (Produzioni dal Basso). Su Twitch gli utenti possono vedere altre persone mentre sono impegnate in un videogioco, condividendo il loro schermo, nonché di interagire con gli altri utenti che assistono alla stessa performance. Ma Twitch sposa in pieno la cultura partecipativa: chi assiste può anche aiutare il giocatore donando piccole somme di denaro, utili - ad esempio - ad acquistare gadget che consentono di migliorare la performance e progredire nel gioco (armi, energia, abilità, vite extra, ecc...).
Non è crowdfunding come tendiamo a concepirlo oggi ma una delle sue logiche evoluzioni. Mi aspetto che prima o poi venga creata un’applicazione che consenta di fare crowdfunding direttamente sulla propria pagina Facebook...
Grazie ad Angelo e a Elisa per le interessanti chiacchierate a margine del convegno
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