Posted on 02/01/2011 at 11:24 AM in File-sharing e Copyright, Mercato e Pratiche di Consumo | Permalink | Comments (2) | TrackBack (0)
E’ gratificante trovare conferme di come il Master in “Management, Marketing e Comunicazione della Musica” si avvalga della collaborazione con realtà italiane all’avanguardia nel music business.
Abbiamo detto più volte che il B2B è uno dei settori in crescita, in cui maggiormente si sperimentano modelli di attività e di business, in particolare sul versante del licensing della musica per le molte utilizzazioni definite “secondarie” (es. tutti i tipi di sincronizzazione e sonorizzazione). E’ questo l’ambito in cui opera Beatpick, uno dei partner del Master, ma ora il suo ideatore Davide D’Atri ha alzato la posta con la creazione di Soundreef, nuovo tipo di intermediario fra aventi diritto e utilizzatori.
Soundreef infatti non solo svolge un servizio specializzato di licensing per autori, editori, etichette e content aggregators, mirato soprattutto a far suonare la loro musica all’interno di esercizi pubblici e privati, ma – e qui sta la vera, importante novità - offre loro una alternativa a SIAE e SCF per la raccolta delle royalties generate da tali utilizzi. In altri termini: da un lato ogni tipo di esercente può rivolgersi a Soundreef per ottenere legalmente musica da diffondere nei propri ambienti (non production music ma repertori di artisti selezionati), senza dover passare da SIAE o SCF; dall’altro gli aventi diritto possono scegliere di affidare a Soundreef la gestione della loro musica solo per utilizzi legati alla sonorizzazione, lasciando alle altre collecting societies la raccolta dei compensi generati da tutti gli altri tipi di utilizzo (tv, radio, internet, performance pubbliche, ecc…). I vantaggi? Agli esercenti costa la metà (rispetto all’utilizzo di repertori licenziati da SIAE e SCF), mentre gli aventi diritto aumentano le opportunità di guadagno derivanti da un uso specifico della loro musica. Ai primi Soundreef offre anche altri servizi di supporto, quali collaborazione per la gestione del palinsesto musicale, possibilità di acquistare i canali radio gestiti direttamente dalla compagnia, assistenza legale.
Tornando all’incipit, prima ancora che nascesse Soundreef è stato oggetto di attività laboratoriali e project work all’interno del Master, coordinati proprio da Davide D’Atri. Per saperne di più, oltre al sito, vi rimando al video più sotto.
Con l’occasione rivolgo a tutti un sentito augurio di buone feste.
Posted on 12/23/2010 at 12:33 PM in DIY e Self-management "2.0", File-sharing e Copyright, Piattaforme, Scenari | Permalink | Comments (2) | TrackBack (0)
In altri post ho accennato allo sviluppo dei servizi in streaming che prefigurano uno scenario in cui i file di ognuno - musicali e non solo - saranno accessibili (solo) online attraverso il proprio account sulla piattaforma in cui risiedono. Quella sarà la cloud personale, a cui ciascuno potrà connettersi in ogni momento da ogni luogo per fruire la propria musica. Uno scenario rafforzato dall’indiscrezione che Apple, Google ed Amazon stanno discutendo con le etichette la messa a punto di questo genere di servizi, ormai definiti “cloud music”. Che conseguenze potrebbe avere ciò sui meccanismi di condivisione? Si direbbe nessuna, considerato che alcune delle piattaforme menzionate in passato consentono la condivisione di playlist fra utenti (es. il defunto Imeem o il controverso Grooveshark). La domanda acquista invece una diversa rilevanza alla luce di questo recente articolo di Techcrunch, che porta all’attenzione i nuovi tentativi di controllare l’accesso alla musica da parte di chi ne detiene i diritti. Nei file musicali venduti da grandi store online come Apple e Walmart durante il processo di acquisto vengono inscritti dei dati permanenti che identificano l’acquirente. In questo modo è successivamente possibile abilitare l’accesso al file solo alla user identity corrispondente ai dati sul file. Ognuno avrebbe quindi la propria cloud, con i propri contenuti regolarmente acquistati, non condivisibili però con altri. Inoltre l’articolo tira implicitamente in ballo la questione dei rapporti di potere fra produttori (che imporrebbero prezzi e watermarking) e distributori (che appaiono in posizione più debole). Tuttavia, sempre secondo l’articolo, Napster, Amazon e 7digital avrebbero invece rifiutato di adottare questo sistema di watermarking
Posted on 04/26/2010 at 09:34 AM in File-sharing e Copyright | Permalink | Comments (0) | TrackBack (0)
A pochi giorni dalla
ratifica definitiva dell’Hadopi “2.0”, mentre anche il disegno di legge per l'economica digitale nel Regno Unito promette di stabilire un quadro regolatore altrettanto
severo per contrastare il file sharing illegale, molti articoli pubblicati ieri
riferiscono dell’ennesima ricerca che mostra come i maggiori acquirenti di
musica si trovino fra chi scarica illegalmente. Aggiungendosi, solo per citare
alcune fra le più rilevanti, a due ricerche svolte in Canada nel 2006 e
nel 2009, due in Francia nel 2004 e nel 2005, una olandese,
una dell’OECD (Organization for economic
co-operation and development), e ad una italiana diretta da Davide Bennato per la Fondazione Einaudi.
Per la precisione, si tratta
di un' inchiesta commissionata dal think-tank Demos alla Ipsos Mori e
condotta proprio in Inghilterra su mille persone fra i 16 e i 50 anni con
accesso ad internet. Di questi risulta che uno su dieci scarica musica
illegalmente. Chi scarica illegalmente spende di media 77 sterline all’anno per
la musica contro le 44 di chi non pratica il file-sharing. In altri termini,
chi scarica spende il 75% in più sulla musica rispetto agli
altri, confermando come il file-sharing costituisca un indicatore
dell’interesse verso l’offerta musicale in senso ampio. Messa così, l’Hadopi e
gli eventuali disegni di legge ad essa analoghi, rischierebbero paradossalmente di colpire anche
e soprattutto i principali acquirenti di musica.
Posted on 11/03/2009 at 10:34 AM in File-sharing e Copyright, Scenari | Permalink | Comments (0) | TrackBack (0)
Probabilmente Jim Griffin
avrà letto il fortunato “The Future of Music Business”, in cui Leonhard e Kusek
ipotizzavano la legalizzazione dell’accesso indiscriminato ai contenuti
musicali presenti rete in cambio del pagamento di una sorta di canone fisso (o
anche di una “bolletta a consumo”), equiparando la fruizione di musica a quella
di altre utenze e servizi. Da qui l’espressione, altrettanto fortunata, “music like water”.
Jim Griffin è un
consulente della Warner Music, nonché l’artefice di un progetto di cui si parla
da diversi mesi e che proprio in questi giorni dovrebbe entrare nella fase
operativa. L’idea di Choruss, questo il nome, consiste nel concordare con i
college e le università statunitensi il pagamento di un fee “per-user” in
cambio della possibilità per gli studenti di scaricare musica liberamente, e
senza il rischio di ritorsioni legali, dai sistemi di file-sharing a cui
accedono tramite le dotazioni dei campus. Sostanzialmente Choruss è una società
di collecting che rappresenta gli interessi delle major che hanno aderito al progetto
(tre su quattro, Universal esclusa). Da modelli di business incentrati sul
controllo e sul pagamento di contenuti digitali ad un modello basato su una
logica di servizio.
Non tutto è chiaro
riguardo al progetto e ai modi in cui verrà implementato, cosa che ha attirato
diverse critiche a Griffin. Il quale peraltro ha costantemente ribadito che
Choruss costituisce soprattutto un esperimento: le università collaboreranno
anche in ottica di ricerca, analizzando le relazioni fra strategie di pricing e d’incentivazione,
comportamenti di consumo e dinamiche di rete. Ogni università sperimenterà un
modello differente: dall’integrazione obbligatoria della tassa all’interno
delle rette, al pagamento volontario da parte degli studenti, alla sua inclusione
nei pacchetti opzionali per l’utilizzo di particolari servizi o attrezzature,
per i quali molti campus richiedono degli extra. Anche il tracciamento dei file
condivisi adotterà tecnologie e metodologie differenti. Sarà infatti compito di
college e università monitorare le attività file-sharing e inoltrare i report a
Choruss. Un test, dunque, per studiare le possibili implementazioni dei sistemi
di tassazione dei servizi che diffondono musica in rete, con l’obiettivo
dichiarato di estendere poi il meccanismo “testato” agli internet service providers, arrivando non più solo agli studenti ma
a tutti gli utenti internet.
Come detto l’idea non
sembrerebbe molto lontana da uno degli scenari prefigurati da Kusek e Leonhard,
per i quali peraltro il flat-fee
dovrebbe costituire solo un punto di partenza per altri modelli basati sostanzialmente
su una logica “premium” (l’acqua in bottiglia), se non fosse per un aspetto
cruciale. Sembrerebbe esserci una differenza sostanziale fra Choruss e le altre
società di collecting, in quanto l’attività della prima non prevede il rilascio
di una licenza collettiva per l’utilizzo dei contenuti. Il meccanismo legale su
cui si basa il piano di collecting non consisterebbe nella tradizionale “licenza”
ma in una procedura denominata covenant
not to sue, letteralmente “compromesso per non citare in giudizio”: in
cambio di un pagamento i membri dell’organizzazione rinunciano ad azioni legali
contro gli studenti per l’infrazione delle leggi sul copyright, nonché contro
le università consentono l’utilizzo delle proprie strutture e dotazioni per le
attività di file-sharing. Alle logiche manifestazioni di perplessità Griffin
ha risposto che la scelta fra licenze o accordi di questo tipo risulta comunque
indifferente ai fini degli obiettivi e degli effetti del programma, demandando
tale scelta ai legali della società e delle major che rappresenta. Ed è qui il problema, in quanto licenza e convenant not to sue saranno anche
uguali rispetto agli obiettivi dei produttori fonografici ma implicano notevoli
differenze sia a livello di principio che nelle concrete conseguenze per gli
altri players del sistema: editori,
musicisti, fruitori. Questo punto è stato messo in luce da Bennett Lincoff e da altri, dei
quali riassumo brevemente le considerazioni.
Primo: mentre la licenza
renderebbe a tutti gli effetti legale il file-sharing tramite software P2P, il
compromesso “per non intentare causa” non produce evidentemente lo stesso effetto.
L’operazione Choruss non va affatto in direzione della legittimazione e legalizzazione
di una pratica ampiamente consolidata ed anzi può benissimo procedere
parallelamente ad azioni legali contro gli stessi servizi che gli studenti
pagano per utilizzare. Tutto ciò che attualmente viene considerato illegale
rimane tale, semplicemente gli aventi diritto chiedono dei soldi per “chiudere
un occhio” nei confronti di due soggetti coinvolti nell’illecito, università e
studenti.
Secondo: ok, i
produttori fonografici prendono i soldi e chiudono un occhio, ma gli altri
aventi diritto? Mentre il meccanismo delle licenze implica che i produttori
fonografici abbiano a loro volta soddisfatto gli oneri relativi all’utilizzo
delle composizioni, sollevando così i licenziatari dal dover pagare due volte
(una volta gli editori per i diritti sulla composizione, un’altra i produttori
per i diritti sulla registrazione), nel caso del “compromesso” non avviene
nulla di tutto ciò. Non licenziando nulla i produttori non sono tenuti a
versare una quota dei soldi ricevuti agli editori per i diritti di sfruttamento
economico delle composizioni. Quindi, teoricamente, le somme versate a Choruss
non esonerano istituti e studenti dal rischio di cause intentate dalle società
che tutelano i diritti di editori e compositori. Per lo stesso motivo anche
interpreti ed esecutori non avrebbero alcun diritto a rivendicare parte dei
proventi raccolti da Choruss. Infine ci sono tutte le etichette non associate a
Choruss: teoricamente ognuna di esse potrebbe comunque contestare a gli
istituti e agli studenti, che pure hanno pagato, il downloading degli specifici
contenuti di cui detengono i diritti.
Posted on 10/15/2009 at 02:46 PM in File-sharing e Copyright, Scenari | Permalink | Comments (0) | TrackBack (0)
In occasione del Convegno “Tempesta Perfetta” ho avuto modo di conoscere il blogger Antonio Incorvaia. Alcuni temi trattati nel suo blog si sono prestati come spunto per interessanti considerazioni sullo stato in cui versa il settore fonografico. Suggerisco in particolare questi due divertenti post sulla “coverizzazione” parossistica che caratterizza parte della “nuova” produzione fonografica:
Il 2009 passerà alla storia come “l’anno della morte delle idee?”
E’ colpa della pirateria se anche quest’anno non esiste traccia di tormentone estivo?
Per farsi invece un idea di come viene affrontato in alcuni contesti proprio il dibattito su "pirateria e diritto d’autore” vi segnalo anche il resoconto di Jacopo Tomatis sul convegno in cartellone al 61° Prix Italia a Torino, pubblicato sul Giornale della Musica (da "brividi" la metafora con cui Dori Ghezzi assimila i brani musicali ai polli...)
Posted on 10/10/2009 at 01:08 PM in File-sharing e Copyright | Permalink | Comments (0) | TrackBack (0)
In attesa di fuoriuscire definitivamente dal periodo caldo (in ogni senso) di fine a.a. (esami, tesi, riunioni, ecc…), ecco una piccola sintesi di alcuni report sul mercato musicale pubblicati di recente.
La Nielsen ci dice che nel 2008 la percentuale di “nuove uscite” all’interno del totale degli album venduti è la più bassa degli ultimi venti anni (35%). Non solo: il ristretto mercato delle nuove uscite si è concentrato (82%) su un numero molto ristretto di esse (950 su 105.000 nuovi titoli, ossia circa lo 0,9%). Ovviamente gli album di catalogo costituiscono un fetta di mercato più ampia, così come il mercato delle tracce singole è costituito per il 40% di tracce uscite fra 2007 e 2008 e per il 60% da singoli di catalogo. Nell’insieme i dati sembrano confermare due trend evidenti già da un po’: il progressivo spostamento del mercato dagli album ai singoli e il fatto che i vasti cataloghi dei negozi digitali hanno sì sdoganato le nicchie, la coda lunga, ma con il risultato di incentivare lo sfruttamento intensivo del catalogo, analogamente a quanto accaduto con il cd, più che di favore l’emergere di nuovi artisti e prodotti. Almeno per ora. Nel frattempo il (piccolo) mercato delle nuove uscite è ancora caratterizzato dall’enorme successo di un numero molto ristretto di titoli.
Lo stesso rapporto della Nielsen evidenzia la rapida scomparsa dei punti vendita tradizionali: nel 2001 il 68% di tutti gli acquisti avvenivano in negozi tradizionali, nel 2009 la percentuale è scesa al 39%. Di progressiva scomparsa dei dischi si è recentemente parlato anche nella mailing list della IASPM italiana, a partire da un post sul blog di Franco Fabbri. In realtà le osservazioni di Fabbri vanno al di là delle considerazioni sui supporti e toccano il generale ridimensionamento del mercato musicale a causa della crescente competizione con altre tecnologie che coagulano bisogni sociali, creativi e di intrattenimento (su tutti, a giudicare dai dati, i videogiochi), per concludere che “gli anni che i discografici ancora mitizzano (e nei quali, bisogna dirlo, si vendevano molti meno supporti fonografici di oggi) […] non torneranno più, cari discografici, neanche se un governo compiacente mettesse un poliziotto vicino al computer di ogni possibile downloader”.
(Il grafico, usato dallo stesso Fabbri, è ripreso da un articolo del Guardian, significativamente intitolato "Are downloads really killing the music industry? Or is it something else?")
Nonostante la crisi del supporto, secondo i dati della British Phonographic Industry, da Marzo 2008 a Marzo 2009 le vendite di CD hanno rappresentato approssimativamente l’86% dei ricavi complessivi del comparto fonografico britannico, contro il 14% derivante dal download digitale.
Un’altra ricerca, svolta dalla PRS in UK, segnala un aumento complessivo del 4,7% dei ricavi dell’industria musicale britannica. In particolare, sono aumentati del 3% i ricavi dei B2C, che costituiscono i tre quarti del totale, mentre i ricavi dal B2B (quindi licensing diretto e collettivo, advertising, sponsorizzazione) sono cresciuti del 10%, contribuendo quindi al restante 25% delle entrate del settore. A ciò si aggiunge la crescita del live, trainata però soprattutto da star consolidate, come Police e Neil Young. Peraltro questi dati vanno considerati nel contesto di un forte rallentamento globale nella crescita complessiva dei ricavi dei settori dei media digitali (dal 6,6% del primo quarto 2008 allo 0,9% del primo quarto del 2009). In questa congiuntura i modelli basati sulle entrate dai consumatori stanno risultando più solidi ed elastici di quelli imperniati sull’advertising.
Una terza ricerca, sempre riferita al Regno Unito, indica una netta diminuzione del file-sharing illegale, in particolare nella fascia d’età 14-18 anni. Parallelamente cresce il successo dei servizi legali, in particolare quelli di streaming. Inoltre la quota di appassionati che acquista legalmente singole tracce ha superato il numero di coloro che le scaricano legalmente (19% contro il 13%), mentre rimane più elevata la percentuale di chi condivide album illegalmente rispetto quanti acquistano album in formato digitale (13% contro il 10%).
*** AGGIORNAMENTO DEL 27/07 ***
Come al solito… giusto il giorno dopo aver pubblicato questo post mi è capitato sotto gli occhi la sintesi di nuovo report della CISAC che imponeva un aggiornamento, con tanto di modifica al titolo. Infatti nel 2007 il collecting globale delle royalties sui diritti spettanti agli autori ha raggiunto il più alto livello di sempre (7.141 bilioni di euro), con un incremento del 4,2% rispetto al 2006 e quasi doppio rispetto al 1996. Tutto ciò nonostante le royalties da diritti fonomeccanici diminuiscano ogni anno. Questi risultati sono il frutto della notevole intensificazione delle attività di licensing dei diritti a livello mondiale, in particolare del licensing rivolto a media nuovi e tradizionali. Anche in questo caso, quindi, dal B2C al B2B. I maggiori aumenti riguardano infatti le royalties da performance al pubblico, delle quali -nel 2007- il 24% derivava dalla televisione, il 19,3% dal comparto fonografico, il 18,4% dalla radio, il 13% dal live. La rilevanza della creatività musicale per l’economia di diverse industrie culturali continua quindi ad essere ratificata attraverso l’istituto della proprietà intellettuale, tutt’altro che indebolito almeno sul piano dei numeri. Sta aumentando questa rilevanza o solo la pressione delle istituzioni musicali perché venga adeguatamente riconosciuta?
Posted on 07/26/2009 at 05:12 PM in File-sharing e Copyright, Live, Mercato e Pratiche di Consumo | Permalink | Comments (1) | TrackBack (0)
Quando la musica è gratis il diritto esclusivo di offrire gratuitamente la propria musica diventa una delle poche opzioni per generare ricavi dalla musica registrata: alimentando visite, click, ed altre azioni misurabili in grado di attrarre inserzionisti. Questa l’idea di Bruce Warila, per il quale il diritto di esclusività sull’utilizzo della musica da parte degli artisti equivale al diritto alla privacy. Ma è davvero possibile sostenere questo paragone? E il file-sharing è alimentato solo dalla gratuità o anche dalla libertà di accesso e di utilizzo?
Posted on 05/22/2009 at 04:42 PM in File-sharing e Copyright | Permalink | Comments (0) | TrackBack (0)
Secondo Michael Arrington il files-sharing di musica protetta da copyright non è eticamente sbagliato. A dire il vero l’argomentazione mi sembra assai debole, mentre più interessanti sono un paio di commenti al post. Il primo, confronta la legge sulla proprietà intellettuale con le leggi di mercato: esistono artisti in grado di sostenersi dando via gratuitamente la musica registrata? Se esistono, sembra sostenere implicitamente “Hmm”, il mercato sarà loro, mentre chi punta solo ed esclusivamente su introiti da musica registrata, e quindi sulla difesa a spada tratta del copyright sui fonogrammi in formato digitale, semplicemente appartiene ad un’altra era. Ancora più interessante è l’osservazione di Alberto Cottica, sul cui blog ho trovato il riferimento alla notizia. La cosa più sorprendente, per Alberto, è che l’affermazione venga da Techcrunch e da Arrington, riferimenti per le startup del web e per i venture capitalist; ecco l’ultima parte del suo post: “E’ chiaro che la legislazione attuale sul copyright inibisce diversi modelli di business potenzialmente interessanti per le imprese hi-tech della Silicon Valley, di cui Techcrunch è una voce importante. Hmm. Sbaglio o queste imprese hanno generosamente finanziato la campagna vittoriosa del presidente Obama, il primo presidente 2.0? Non sarà che adesso queste imprese stanno presentando il conto al loro uomo a Washington?”
Posted on 04/27/2009 at 08:43 PM in File-sharing e Copyright | Permalink | Comments (0) | TrackBack (0)
Nell’ultima settimana ha scatenato parecchie reazioni la vicenda giudiziaria che ha coinvolto The Pirate Bay, conclusasi con una condanna dei quattro responsabili del sito. Pirate Bay è un tracker svedese di BitTorrent, in sostanza una sorta di motore di ricerca che indicizza file .torrent, consentendo di rintracciare i contenuti condivisi nelle macchine in rete e fornendo quindi i link per copiare materiale audio/video protetto da diritto d’autore.
Il 17 Aprile il tribunale di Stoccolma ha sentenziato la violazione delle leggi sul copyright da parte dei quattro responsabili, condannandoli a un anno di detenzione più il versamento di 2,7 milioni di euro di risarcimento alle imprese costituitesi parte lesa, fra cui Warner Bros, MGM, Columbia Pictures, 20th Century Fox, EMI, Universal e Sony BMG (a fronte di una richiesta danni di superiore ai 9 milioni di Euro). La linea difensiva di TPB ha provato a sostenere la classica tesi a cui storicamente, a partire dal caso Betamax, si sono appellati i produttori di tecnologie utilizzate per copie non autorizzate. Come ricorda Marco Gambaro la tesi si fonda sostanzialmente sul principio che chi crea una tecnologia di copiatura non può essere ritenuto responsabile per l’uso eventualmente illegale che ne viene fatto. In questo caso la difesa ha sostenuto che, non ospitando sui propri server i file e funzionando solo da motore di ricerca per individuare i link, il sito non poteva essere ritenuto responsabile del file-sharing di contenuti tutelati da copyright. Tuttavia i giudici hanno ritenuto che il sito favorisse in diversi modi la diffusione di materiale protetto, e quindi corresponsabile dei download illegali. Ad esempio, a differenza di Google, Pirate Bay organizza i propri indici focalizzandosi sui file torrent, che spesso indirizzano a contenuti pirati. Alcuni articoli individuano un ulteriore elemento di dolo nel profitto tratto dai gestori, attraverso pubblicità e donazioni degli utenti. Dunque il fatto di non ospitare contenuti pirata sui propri server sembra non costituire più una cautela sufficiente, come dimostrano questa ed altre sentenze che ratificano una corresponsabilità delle piattaforme. In attesa del già annunciato ricorso in appello, The Pirate Bay segue dunque la caduta di Napster, Kazaa e Audiogalaxy.
Come detto la sentenza ha ovviamente suscitato le reazioni che potete immaginare da parte di blogger e utenti della rete (fra i tanti: Jim Markunas, per il quale “although piracy is wrong on a lot of levels, it simply cannot be stopped in a cost effective and/or mutually beneficial manner”). Tuttavia vorrei portare l’attenzione su un commento che trovo particolarmente significativo, in quanto proveniente da Enzo Mazza, presidente della Federazione Industria Musicale Italiana, pubblicato tre giorni fa su Punto Informatico. Ne riporto di seguito alcuni stralci (naturalmente vi invito anche a leggerlo per intero).
“[….] questa decisione dovrebbe far riflettere tutti sulla necessità di superare una fase di scontro totale basata su teorie anacronistiche come "fine del copyright", "estinzione delle imprese che producono contenuti" ed altre espressioni estreme che non consentono lo sviluppo di un sereno dibattito sull'evoluzione dell'e-content […] In molti articoli e commenti susseguiti alla decisione di Stoccolma si è posto il confronto tra due presunte filosofie inconciliabili: la libera condivisione dei contenuti da una parte e la distribuzione fisica di CD, nonché il modello tradizionale dell'industria musicale, come se non esistesse qualcosa nel mezzo. La realtà è oggi molto, molto diversa, e lo dimostra proprio l'evoluzione dei modelli di business in atto nel settore discografico, certamente più articolati e flessibili rispetto soltanto a uno o due anni fa. […]
Se oggi guardiamo invece in profondità a ciò che avviene nel settore musicale notiamo un processo di innovazione spinto che non ha confronti con altri settori dei media e che dopo anni di errori strategici, purtroppo dovuti anche al fatto di doversi confrontare per primi con una rivoluzione radicale, comincia a mostrare i primi frutti. Una campagna di lancio e promozione di un album oggi non può prescindere ormai da Twitter, Facebook, YouTube, anticipazioni free sui maggiori portali, partecipazioni degli utenti al processo creativo di un video o di un intero album” [enfatizzazione mia]. “Milioni di brani sono offerti senza DRM su piattaforme di download con community sempre più attive come quelle create da Dada e di nuove offerte come Comes with Music di Nokia.
Ma torniamo all'istruttiva vicenda di The Pirate Bay e notiamo come molti autorevoli commentatori siano caduti nella trappola mediatica di Sunde e soci che si sono posti come gli eroi di una saga nordica nella quale elfi buoni della foresta si battono e vincono contro l'impero di ghiaccio, immutabile e statico della regina della neve che tutto copre e ingessa. La vittoria degli elfi avrebbe significato sole, fioritura, cielo azzurro. La vittoria della regina della neve ha significato nuvole nere, grigiore e acque ghiacciate e inaccessibili con morte e desolazione per il popolo del bosco. Identificare The Pirate Bay come il difensore della causa degli oppressi della rete è un grave errore perchè non produce nulla di costruttivo. Sarebbe come dire che le Brigate Rosse sono state utili alla causa dei lavoratori” [enfatizzazione mia] “peraltro, il finanziatore di TPB, Karl Lundstrom, risulterebbe essere un attivista del partito neo nazista e xenofobo svedese, quindi tutt'altro che un difensore delle libertà civili.
Affermare poi che The Pirate Bay è un intermediario senza un ruolo attivo e come tale soggetto alle esenzioni della direttiva e-commerce è un errore. Paragonare Pirate Bay a Google è strumentale perché anche un soggetto con poca dimestichezza ne nota le immense differenze. Se vogliamo usare termini semplici Google è come le pagine gialle con l'elenco delle banche. The Pirate Bay è invece il palo che cura la banca mentre i complici la rapinano” [enfatizzazione mia]. “Google, così come YouTube, eBay ed altri, sono solerti ed attivi nel rimuovere i contenuti illeciti su segnalazione degli aventi diritto e operano quindi in un contesto che favorisce l'uso legittimo dei contenuti e disincentiva l'uploading illecito. The Pirate Bay ha sempre escluso ogni forma di cooperazione ed ha invece favorito ogni sorta di abuso da parte degli utenti, vantandosene in ogni contesto. […]Lo stesso dibattito si ebbe in occasione di Napster e di Kazaa ma non mi risulta che la rete abbia risentito in termini di sviluppo dalle condanne inflitte mentre invece si è stabilizzato e consolidato un mercato legale sempre più interessante”. [su questo punto mi sorge una domanda, niente affatto retorica ma interessata a verificare la considerazione che sembrerebbe qui sottesa: è possibile misurare se/quanto le condanne di Napster e Kazaa abbiano contribuito a stabilizzare e consolidare il mercato legale?]. “Non è il copyright a frenare lo sviluppo dell'offerta online, anzi, esso si adatta al mutare delle tecnologie, basti vedere i modelli di licensing di contenuti che hanno avuto incentivo dall'apparire di nuovi modelli di business.” [stavolta la domanda non è retorica: è il copyright che si adatta alle tecnologie o sono i soggetti interessati ad adattare il copyright alla propria visione delle tecnologie e dei modelli di business appropriati? Sono le tecnologie a esprimere autonomamente le opportune direzioni di sviluppo delle normative o le persone e i diversi gruppi di interesse che le usano?]. “Proprio in questi giorni FIMI diffonderà il rapporto sulla musica digitale nella versione italiana e sarà l'occasione per toccare con mano l'evoluzione di un settore che non ha più al centro della propria politica industriale solo il CD e le dinamiche commerciali tradizionali, ma un'ampia gamma di servizi e di offerte basate su filosofie che includono free download, abbonamenti flat, free streaming, carte prepagate, integrazione TV e web, UGC, ecc. Tutt'altro che lo scenario di resistenza al cambiamento che è stato il leit motiv di molti autorevoli commenti pubblicati su queste ed altre pagine della rete”
E’ vero. L’industria musicale sta finalmente sperimentando, in modo e misura diversa a seconda dei soggetti ma senz’altro con un approccio molto differente rispetto al passato (e non potrebbe essere altrimenti). Alcuni modelli sono davvero innovativi ed estremamente interessanti. Qui però c’è anche un altro punto che mi sembra interessante, un’altra domanda (non retorica) su cui forse vale la pena riflettere: quali sono gli aspetti di sistema e i principi fondanti dell’industria musicale che possono essere legittimamente messi in discussione e quali sono invece da ritenersi intoccabili? E per quale motivo? Cosa distingue i dibattiti sul copyright da quelli sui modelli di business?
Posted on 04/25/2009 at 02:23 PM in File-sharing e Copyright | Permalink | Comments (1) | TrackBack (0)